Si tratta di un’icona marmorea a rilievo della Vergine, a figura intera, frontale, in atteggiamento di orante.

Indossa il maphòrion, il manto bizantino che le copre il capo incorniciandolo dolcemente, scende in modo ondulante e graduale fino a tre quarti della persona sopra un abito o tunica che rimane visibile in tutta la parte frontale. Il capo è incorniciato da un’aureola. La Madonna è in atteggiamento di Orante, tiene le braccia alzate nella posizione della preghiera, in modo simmetrico fino all’altezza delle spalle così da mantenere ben aperto il mantello. I piedi sono su piani discosti: uno frontale, l’altro con la punta rivolta all’esterno. Il particolare più interessante riguarda le mani a palmi aperti che al centro hanno un foro da cui veniva fatta uscire l’acqua.

In Costantinopoli, dopo il periodo dell’iconoclastia, si sviluppa una grande devozione per la Madre di Dio, in particolare la sua presenza iconica viene unita alla presenza di acqua, intesa simbolicamente come mezzo di purificazione, di rigenerazione e di salvezza. Pertanto la scultura veniva collegata ad un sapiente sistema idraulico, veniva costruita in modo da divenire mezzo di scorrimento dell’acqua che poi, come detto, zampillava dalle mani. Poiché in Costantinopoli esisteva il quartiere imperiale di Blacherne, nel quale fu fatto sorgere il santuario di Blacherne imperniato su una immagine mariana corrispondente alla descrizione di cui sopra, questo tipo di Orante assunse per antonomasia il titolo di Blachernìtissa.  Quel santuario era il più importante in assoluto, poiché custodiva il manto della Vergine portato da Gerusalemme a Costantinopoli. Il 2  di luglio, giorno della traslazione del manto sacro, vi si recava la coppia imperiale con il suo seguito e con una moltitudine di pellegrini e di fedeli.

Nel periodo dell’impero latino (1204-1261) un certo numero di queste icone mariane fu spostato in occidente, se ne conosce una decina. Ebbene, Venezia ne conserva ben sette.

Quattro sono all’interno della basilica di San Marco, una all’esterno della chiesa stessa, una nella chiesa di Santa Maria Mater Domini, una nella chiesa di San Giovanni Crisostomo. Il periodo della loro traslazione offre un termine per valutare e tentare una datazione  della loro produzione.

In questo progetto in cui si può ravvisare la volontà anche politica di rendere Venezia simile a Santa Sofia in tale devozione, una nuova Santa Sofia, le Oranti completano la chiesa di stato con le immagini devozionali mariane. Cambiando, però, il contesto e, se vogliamo, anche la forma rituale, una volta traslate nella città lagunare alle Oranti vengono otturati i  fori delle mani, con malta calcarea o con tasselli inseriti con l’ausilio di mastice caldo. Ecco perché le nostre sculture mariane, diversamente da quelle trasportate altrove (Istanbul, Messina) non hanno il foro delle mani aperto. Solo una, quella del pilastro nord parete occidentale, in sede di restauro, ha lasciato scoprire l’esistenza di un tubicino metallico nel foro della sua mano destra.

I cinque esemplari marciani appartengono alla scultura medio-tardo bizantina. Precisamente, l’Orante della facciata nord  (1×0,52 m) è probabile lavoro del XII secolo, quella a lato della cappella dei Mascoli (1,60×0,80 m) è collocata nei  primi decenni del XIII secolo; l’Orante del pilastro angolare del transetto nord (1.60×0,83 m) è scultura  considerata dell’XI secolo, quella posta sulla parete della navatella sinistra, all’interno della porta di San Pietro, detta Madonna delle Grazie (1,44×0,825 m) e come tale venerata sin dall’inizio della sua collocazione in San Marco, dagli studiosi più recenti è ritenuta lavoro bizantino del tardo X secolo; infine,  la  Madonna  (1,54 x 0,72 m)  che è ubicata  all’interno  della porta  di San Clemente, chiamata dallo studioso Davis Madonna Candelabra per i quattro candelabri in opus sectile che adornano lo spazio semicircolare di cui ella occupa il centro, è riconosciuta quale esemplare lavorato nella seconda metà dell’XI secolo.

Maria Lucia Sartor
(consigliere del Club Unesco Venezia)

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